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Architetto Antonio Caregaro Negrin

Brevi cenni della sua vita
(1821 - 1898)

Correva l’anno 1821. Maddalena, ultima superstite della famiglia Negrin, era figlia del valente capomastro Negrin di casa Colleoni.
Maddalena aveva sposato M. Quartesan, che lavorava alle dipendenza di papà Negrin, con il quale ebbe una figlia ed un figlio.
Rimasta vedova conobbe Domenico Caregaro, anch’egli capomastro, anch’egli vedovo, con tre figlie. Non è dato di sapere se fu amore a prima vista, ma il loro matrimonio ebbe certamente dei risvolti imprenditoriali, trattandosi in pratica delle fusione di due attività nello stesso settore, dando origine a quella strana situazione che portò poi negli anni alla formazione del cognome Caregaro Negrin.
Nella nostra famiglia infatti, a noi bambini, veniva detto che era colpa della "nonna che si era sposata due volte!" se avevamo un cognome doppio. Ma facciamo un passo alla volta.
Il 13 Giugno 1821, in via Stalli a Vicenza, da Domenico Caregaro e Maddalena Negrin, novelli sposi, nacque quindi il piccolo Antonio.
Nel frattempo, sotto la guida di D. Caregaro, Giovanni Maria Quartesan, figlio di prime nozze della Negrin, sposato con Francesca, figlia di prime nozze di Domenico, fece esperienza ed eseguì parecchi lavori diventando come si dice "valente capomastro".
La morte prematura del papa Domenico, avvenuta in seguito ad un grave dispiacere per un affare mal riuscito, peggiorò i già difficili rapporti di Antonio con i fratellastri.
Giovanni M. diventò capofamiglia e così in casa rimasero mamma Maddalena, vedova per la seconda volta, gli sposi ed il piccolo Antonio, da essi considerato un intruso. Solo la mamma lo copriva di affetto, ma essa stessa era emarginata dagli sposi e viveva quindi con questo grande dolore. Per la verità Antonio godeva anche dell’affetto del figlio Michele di Giovanni M.
Il piccolo Antonio frequentò a stento le scuole elementari essendo sempre molto occupato con mansioni d’ufficio e pratiche nell’impresa del fratellastro. Riuscì a frequentare un corso tecnico e di disegno e fu la sua occasione. Il professore di disegno Bongiovanni ed il professore di matematica Magrini, vedendo la sua buona volontà e sapendo del poco tempo a disposizione per gli studi, lo vollero spesso a casa loro per migliorare la sua preparazione e per avviarlo agli studi superiori con notevoli progressi.
A vent’anni, morta la madre per le continue amarezze e umiliazioni che subiva da parte del fratellastro e sua unica ragione per restare in famiglia, decise di andarsene con duemila lire ricavate dalla vendita di una casa in Contrà Busa S.Michele che possedeva con il fratellastro. Dagli atti relativi a queste operazione risulta che dalla vendita ricavarono meno di quanto fu speso per l’acquisto, facendo pensare che probabilmente non fu una decisione preparata per tempo ma dettata da una necessità impellente.
 
Così, libero e padrone di se stesso, si fece capomastro avendo di tale professione molta pratica e col suo lavoro occupò un discreto numero di operai; anche vari ingenieri ricorrevano a lui per disegni, dettagli e sagome.
Nonostante si sentisse lieto della libertà appena conquistata, provava una grande nostalgia per la famiglia probabilmente risentendo ancora della sua mancanza nel periodo della fanciullezza. Così nel 1841, rifiutato un buon partito più materiale che affettivo e seguendo l’impulso del cuore, sposò Veronica Zanetti, sua amata e felice sposa, andando ad abitare in Contrà S.Biagio.
La famiglia con gli anni divenne numerosa: Marianna, poi Giovanni, Eugenio, Adele, Clorinde, Cesare e due che purtroppo morirono appena nati.
Col passare del tempo si dedicò sempre più all’arte dell’architettura fino a dedicarsi esclusivamente ad essa. Le commissioni, consistenti in gran parte in riduzioni e riforme, non mancavano al giovane architetto che si fece stimare per saper ben concatenare progetto e realizzazione dell’opera, ottimizzando lavori e quindi spese.
Spesso era assente da casa per lavori che dirigeva un po’ dovunque da Padova a Vicenza a Treviso. Le famiglie Salvi, Nievo, Fogazzaro, Cabianca furono quelle per le quali prestò i suoi primi servizi.
Nel 1846 , dopo aver diretto il restauro della scena del Teatro Olimpico viene nominato Accademico.
E’ iniziata in pratica l’ascesa della sua carriera che, con il senno di poi, sembra avere avuto un certo spessore culturale ed artistico. Di questo aspetto già vari ricercatori ne hanno parlato mettendone a fuoco ora un aspetto ora un altro: i concorsi per opere di interesse nazionale, la progettazione di giardini, lo studio del restauro architettonico, ed alti ancora.
Leggendo e rileggendo suoi documenti o gli elaborati dei vari ricercatori ho sempre avuto la sensazione di trovare tra le righe un pensiero costante: la patria. Non sono un letterato e cerco di spiegarmi come posso. Non la Patria intesa come Sacro Suolo, espressione di fanatismi guerreschi o spirito di conquista territoriale. La Patria come identità culturale, come fonte di pensieri e di tradizioni che ci rappresentano e delle quali dobbiamo essere fieri e gelosi. La signora Ricatti, nel suo libro "Antonio Caregaro Negrin - un architetto vicentino tra eclettismo e liberty" dice: "L’artista vicentino si pone paladino dell’arte italiana, dalla quale vuole escludere ogni soggezione alle altre nazioni europee. In particolare, nel caso del Duomo di Milano (..) il Caregaro Negrin afferma che per progettare la nuova facciata in conformità con lo stili del meraviglioso monumento, conviene studiare nel Duomo stesso, senza ricorrere agli esemplari gotici d’oltralpe".
Questo suo modo di essere non è "di comodo" come verso la fine della sua carriera qualcuno ipotizzò.
Eravamo rimasti al 1846 quando, a 27 anni, accademico, artista richiesto, famiglia felice con prole, poteva guardare all’avvenire con una certa tranquillità. Ma nel 1848 pose fine alla sua attività di artista e si dedicò tutto alla causa della patria, nella lotta per la liberazione dagli austriaci, come del resto molti suoi concittadini. L’arma a lui più congeniale era la conoscenza delle tecniche edilizie, e si propose infatti per la progettazione delle barricate di Vicenza, alla diretta dipendenza del comitato della difesa e del col. Belluzzi. Le tristi vicende degli assalti a Vicenza nel Maggio del 1848 e la capitolazione il 10 Giugno della stesso anno a Monte Berico sono sicuramente fatti noti a tutti. Nei tre mesi della difesa si lavorò senza tregua nei borghi e sui colli, notte e giorno. "Riposavo qualche ora" dice l’architetto" su di una tavola o sull’erba, ove m’imbattevo, mai a letto". Per suo ordine, le carte più compromettenti furono trasportate dal Palazzo Vescovile, ove aveva sede l’ufficio per i lavori della difesa, nei locali adibiti a studio del Palazzo Negri a Santo Stefano, e nella notte stessa bruciati nel piccolo camino. All’alba del successivo 11 Giugno le truppe, agli ordini del gen. Durando, uscirono dalla città e con esse naturalmente partirono, con gli onori militari, tutti coloro che avevano avuto tanta parte nell’eroica resistenza. Fra questi anche il nostro architetto: " Non dirò dello strazio dell’anima mia e di mia moglie alla mia partenza. La marcia a piedi fino a Rovigo fu disastrosa, perché gli austriaci avevano devastato tutto ciò che potesse lenire ai vinti le pene del lungo viaggio. Molta strada la feci montato sopra un predellino della carrozza della famiglia Nievo, nella quale eravi l’illustre Massimo D’Azeglio ferito gravemente ad una gamba nel combattimento a Monte Berico. Gli tenevo sopra la ferita una vescica d’acqua fredda. Ero anch’io leggermente ferito al polpaccio della gamba sinistra da una scheggia di granata scoppiata a Porta Padova. A Rovigo molti seguirono le truppe, alcuni invece si portarono a Chioggia e quindi a Venezia. Io mi unii a questi." A Venezia l’architetto fu messo subito in contatto, tramite il conte Salvi, con lo stesso col. Belluzzi già conosciuto a Vicenza e fu aggregato, dopo un rigoroso esame, al corpo d’ingenieri militari addetti alle opere di fortificazione. Rimase a Marghera quattro mesi; poi dal Governo ebbe l’incarico di ricostruire le batterie sui canali di Campalto e Tessera per formare la seconda linea. Durante il giorno seguiva i lavori nei vari cantieri, spostandosi con una barca, ed alla sera si recava alle lezioni di "Fortificazione stabile e campale" e di "Tattica militare". Il 13 Novembre 1848 ottenne il brevetto di sottotenente del corpo Zappatori del Genio. Il 5 Maggio del 1849 gli vengono affidati i lavori per il forte di Marghera ed è nominato direttore dei lavori del circondario di Brondolo, Calino, CàMaccari. A Chioggia attiva il ponte volante di barche sul Brenta. Molte altre opere militari portano il suo sudore, e mi riprometto, tempo permettendo, di approfondire le notizie.
I suoi meriti furono comunque riconosciuti dal generale del forte di Marghera che così di lui scrive al gen. Antonini: " Pochi sono stati attivi come questo individuo nelle fortificazioni di Venezia. Voi più di ogni altro conoscete come merita quell’uomo che si dedica al servizio, abbandonando famiglia ed averi." Seguirono giorni difficili. Oltre ai continui bombardamenti degli austriaci, anche la malaria mieteva vittima tra i difensori. Anche l’architetto ne fu colpito; ma il suo più grande dolore fu perdere Maddalena, sua figlia prediletta. Il dolore lo rese ancora più debole e, nonostante la vicinanza della moglie che coraggiosamente lo aveva raggiunto, si temette per la sua vita. Dopo la capitolazione di Venezia si portò a Padova dove lasciò proseguire i suoi cari per Vicenza, via Bassano, e si recò alla Longa in casa del poeta Jacopo Cabianca che lo accolse per potersi curare nel corpo e nell’animo.
Dopo un paio di mesi tornò in seno alla famiglia, col pensiero d’incominciare di nuova la sua carriera d’artista. Il suo desiderio, quando cadde Venezia, era quello di emigrare, ma ne fu distolto dal col. Belluzzo, ormai suo caro amico, il quale lo convinse che in patria era sicuramente più utile. Fece parte del comitato segreto con l’ing. F. Molon, il Tecchio ed il Cavalletto; venne la pace di Villafranca e finalmente nel 1866 il Veneto fu liberato. In tale data, in occasione della venuta a Vicenza di Vittorio E. II° ebbe dal Re la nomina a Cavaliere Mauriziano. Presidente per molti anni dell’Associazione dei Veterani, fu dal Governo nominato Commendatore della Corona d’Italia.
La sua esperienza patriottica sembra finita; lo slancio di generosità gli è comunque costato sia in salute che finanziariamente, ma fa parte del suo carattere non porsi troppe domande sul domani. In realtà l’esperienza continua, perché la parte attiva è stato solo una bolla che è venuta a galla, parte integrante di un pensiero in lui sempre presente. La sua concezione dell’Arte viene ora più che mai intesa come espressione più alta del sentimento patriottico nazionale. Scrive la sig.ra Ricatti." In tal dimensione va vista la sua tenace difesa della tesi dell’origine tutta italiana del giardino paesista, e si spiega la su adesione alla corrente medievalista, con preferenza per l’architettura romanica, e, infine, il simbolismo espresso dai progetti dei monumenti al Cavour e a Dante Alighieri".
In tutte le sue opere c’è sempre la ricerca dei valori della "nostra" cultura e la conservazione di quanto fatto dai nostri predecessori perché "per poter ben programmare il futuro bisogna ben conoscere il passato". Come membro della Commissione all’Ornato di Vicenza lottò sino all’ultimo fiato contro opere di restauro che nulla avevano a che vedere con l’opera da restaurare, anzi ne segnavano tristemente la fine.
Ecco alcuni passi della relazioni del 1894 relativa Alla facciata con arcone fra la torre del Tormento e la Basilica Vicentina: " ....In base al mio progetto furono eseguiti i lavori sulla via Catena e venne restaurata la facciata dell’arcone senza che fosse mai interrogato l’autore del progetto. Fu invece applicata una tinta neutra, stonata con le parti sottoposte. Vi aggiunsero anche un fregio che si volle esistesse e che né dalla litografia disegnata da Marco Moro né dalla fotografia apparisce. Il pittore decoratore Zampese ha seguito allo scrupolo le prescrizioni di due distinti pittori membri della Commissione dell’Ornato e a lavoro compiuto, visitato il lavoro da vicino e da lontano, lo approvarono. In seguito a ciò è da stupirsi come ora i due membri della commissione sconfessino tale fatto, dopo che lo avevano approvato, anzi si può dire che il lavoro era opera loro" ...e prosegue più avanti: "Ma l’onorevole civica Commissione all’Ornato è troppo nemica delle costruzioni a laterizio visto, fino a dire che tali costruzioni sono solo per cortile da frutti o per un rurale, cosicché si dovesse mettere a paragone dei rurali i grandiosi templi, i castelli ed altri ragguardevoli monumenti in laterizio dell’epoca aurea dei Comacini o dei Lombardi, o noi a Vicenza si dovesse detestare le nostre chiese di S. Corona o di S. Lorenzo"
E’ solo un esempio con quale impeto cercava, di contrastare lavori di restauro che di conservativo avevano ben poco. Purtroppo molte volte la politica è più forte dell’arte e nel 1889, per manovre dei suoi nemici uscì dalla Commissione all’Ornato.
 
Viaggiò molto sia in Italia che all’estero; Milano, Torino, Firenze, Bologna, Roma, Napoli, Palermo. Nel 1862 vistò Parigi, Londra, Berlino, Vienna sempre più allargando le sue cognizioni e facendo utili raffronto, non tanto per portare in Italia "Scuole" di altri paesi, ma per la sua sete di arte e di cultura. Ben lo comprese il sen. Alessandro Rossi e a lui affidò l’arricchimento architettonico di Schio e dei paesi vicini.
Ma la sua anima restava a Vicenza, dove comunque eseguì opere abbastanza modeste per chi avrebbe desiderato abbellire la propria città natale che non corrispose il suo amore.
Egli vagheggiò di adornarla con splendidi edifici, di cui studiò ed eseguì anche i progetti, pur sapendo che non sarebbero diventati realtà e che nessun frutto avrebbe ricavato da essi; ideava di liberare la Basilica dal suo ingombro di botteghe, di costruire il mercato coperto, di riunire le scuole facendo una città degli studi con relativa palestra, di decorare il Teatro Olimpico di una facciata classica, di trasformare in giardino archeologico la piazza del museo con gli avanzi del teatro Berga; sognava il bagno pubblico a Santa Croce, l’ampliamento del cimitero con una zona riservata al clero; progettava di completare con due archi la Loggia del Capitanio e dare alla Piazza dei Signori uno sfondo degno del Palladio, creando a sera una costruzione con colonne, archi e terrazze, di aprire il giardino Salvi al pubblico con una cancellata in armonia con il portone d’ingresso, di fare la pescheria a San Biagio vicino al fiume ecc. ecc.
Molti dei suoi progetti poi, lui morto, divennero realtà lasciando forse ancor più amarezza in bocca ma almeno la soddisfazione postuma dei profeti.
 
Gli ultimi anni della sua vita hanno qualcosa in comune con la sua fanciullezza. Rammaricato per non aver potuto fare tutto quello che aveva ideato di fare, rattristato nel vedere che la lotta per il potere era più forte della ragione dell’arte, finì i suoi giorni amareggiato, con il solo conforto di essere stato un buon marito e padre.
Se permettete, riporto una sua lettera del 28 Luglio 1885 (Biblioteca Bertoliana di Vicenza) al Comm. Jacopo Zanella, allora presidente dell’Accademia Olimpica di Vicenza:" A suo tempo feci rientrare la mia intenzione di dimettermi da presidente della Sezioni Arti, trattenuto da quell’affetto che mi lega ad una carica, alla quale sacrificai tanta e tanta parte di vita, e più che tutto la speranza che la nostra Scuola Popolare di Disegno venisse regolata nel modo desiderato e raccomandato dallo stesso Illustre Marchese Selvatico fino al 1876. M’ingannai....Si volle rendermi più spinosa la via....L’appoggio che mi aspettavo da chi era dovere di darmi mi venne a mancare! Lotte personali, cavillose asserzioni da un lato, persecuzioni dall’altro. Oltretutto questo: la mia dignità ingiustamente offesa, stanchezza di lavoro e gli anni molti. Non mi sento perciò la forza di lottare. Vi rinuncio con animo tranquillo di chi sa di aver sempre costantemente lavorato con onesti intendimenti. Vi rinuncio nella speranza che chi mi succederà raggiunga veramente quello che la città e l’operaio domandano: il vero miglioramento della nostra scuola informato a sana istruzione, al giusto progresso dei tempi. Viene detto e con ragione, che il tempo è galantuomo. Si vedrà se le mie proposte fossero o no accettabili."
 
Il 26 Dicembre 1898 fu il suo ultimo giorno terreno; una grandiosa cerimonia funebre fu l’ultimo saluto della sua città.